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Isabella Nardon (Trento, 1992) e Jacopo Noera (Modena, 1991)_______________________________Reanimation


Un gruppo di persone percorre lo spazio urbano, si arresta nel luogo prescelto – una piazza, una via, una stazione, un supermercato, lo spazio antistante un edificio istituzionale, un mezzo pubblico, ecc. – e avvia un processo di “riscaldamento” teso a “risvegliare" determinate parti del corpo – dai muscoli degli arti a quelli del viso, dalle corde vocali alla lingua. Gli esercizi che compongono questa attività di “rianimazione” (Reanimation) sono stati assegnati a dei performer, ma potrebbero essere svolti da chiunque. A ben vedere, non sono poi così diversi da quelli che si è soliti attribuire all’ambito del fitness, della concentrazione o del riscaldamento vocale. Alcuni elementi però paiono incrinare tale facile spiegazione: la loro collocazione (perché mai dei vocalizzi in un supermercato?), l’estemporaneità gratuita dei gesti (per quale ragione delle persone smettono di camminare e si dedicano a un’improvvisa seduta di stretching di fronte a un tribunale?)
e la loro orchestrazione coreografica (a quale scopo degli individui pronunciano all’unisono uno scioglilingua in mezzo a una piazza?). In ogni caso le azioni dei performer – ma sul fatto che si tratti effettivamente di performer, a una prima osservazione, potrebbe non esserci accordo – sembrano, in tutti i sensi, “fuori luogo”.
Forse si tratta di un divertissement, forse di una provocazione. In ogni caso, a quanto pare, inoffensiva. Il sospetto che si tratti di una boutade non esaurisce la possibilità di interrogarsi se sia il caso di conferire a ciò cui si sta assistendo un ne diverso da quello che di primo acchito si potrebbe facilmente immaginare (un allenamento, uno scherzo…). Questo scopo esiste? E se esiste, su quale base è condiviso da quel gruppo?
Perché poi non viene rivendicato? Su un punto si potrebbe forse trovare un certo consenso: si tratta di azioni ambigue, velate di ludica ironia, ma di dubbio significato.
Quanto sin qui descritto corrisponde a quello che è accaduto negli spazi della città di Trento, nel corso di una performance che si è tenuta alla ne di maggio. Si sono ipotizzate delle possibili reazioni da parte di coloro che si sono trovati casualmente ad assistere e si sono postulati i loro verosimili interrogativi. Soliti a interventi dalla spiccata e disincantata ironia, anche in questo caso Isabella Nardon e Jacopo Noera ne hanno fatto uno strumento funzionale alla definizione di una serie di situazioni dal significato apparentemente indecidibile, con lo scopo primario di operare una sospensione, un inciampo in grado di deviare la linearità della vita quotidiana e di contravvenire, nella durata di incontri momentanei ed effimeri, alle normali aspettative maturate nella ripetitività dell’abitudinario. Se l’intervento può essere inteso come un détournament rispetto all’uso ritenuto “normale” dello spazio pubblico, esso risulta teso a increspare, seppur nel lasso di un attimo, le ritualità conformistiche che vi si consumano e le attività analizzate che vi si adempiono. La matrice situazionista della performance – che intreccia a quello di “détournement” i concetti di “dérive” e, per l’appunto, di “situazione” –,4 in ogni caso, rappresenta solo una prima stratificazione del significato dell’opera, un significato estemporaneo che si dischiude e si radica nello spazio-tempo immediato e irripetibile in cui essa è avvenuta.
Nel secondo segmento dell’intervento, una video-installazione, la performance si completa di una sorta di specificazione differita di ordine riflessivo, atta a problematizzare l’ambiguità del binomio azione/visione per come descritta in apertura. Tre video riportano ciascuno uno specifico punto di vista: quello dei performer (azione), quello del pubblico casualmente coinvolto (visione) e quello, in campo largo, attribuibile dall’ambiente urbano (visione della visione e dell’azione). Quest’ultimo approssima il regime scopico della “città della sorveglianza”, una ramificazione di strumenti di registrazione sempre più sofisticati, funzionali a individuare comportamenti sospetti in quanto non conformi a una norma prestabilita e dunque passibili di sanzione e repressione. Il funzionamento di tale sorveglianza si basa su un assunto molto semplice: i soggetti, consci della possibilità dell'osservazione, sarebbero indotti a normalizzare il proprio comportamento in modo automatico, senza che quella debba dare adito a un intervento attivo o, al limite, effettivamente sussistere.5 Già delineata la peculiare modalità “sovversiva” della deviazione performativa predisposta da Nardon e Noera, essa mimetizzerebbe sotto l’ambiguità dei vari esercizi di “riscaldamento” il vaglio di due livelli di feedback, quello dell’osservazione osservata e quello dell’osservazione osservante. Rispetto all’ultima, per testarne i margini di tenuta e valutare gli spazi di manovra ancora disponibili, si tratta di dissimulare tatticamente l’atto non conforme sotto le mentite spoglie di un’attività di training; rispetto alla prima, oltre il piano metaforico di un “riscaldamento” la cui finalità è lasciata aperta e disponibile a una proiezione esterna (componente attiva intrinseca alla fruizione estetica), di sondare la tenuta della normalizzazione indotta rispetto alla possibilità della partecipazione mimetica a un esercizio di risveglio collettivo, ma individualmente ri-significato.


4 Cfr. Dé
nitions, in “Internationale Situationniste”, n. 1, 1958, in Mirella Bandini, L’estetico e il politico. Da Cobra all’Internazionale
Situazionista 1948/1957, costa&nolan, Ancona; Milano 1999, pp. 357-8.
5 Cfr. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, 2014 (1975), Einaudi Torino, pp. 212-47.

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